sabato 23 febbraio 2013

Anna Karenina





Dal 1911 ad oggi le riduzioni cinematografiche e televisive del romanzo di Lev Tolstoj, Anna Karenina, sono state una ventina.
Il personaggio della sfortunata moglie fuggitiva è stato interpretato da donne dalla fragile venustà come Greta Garbo, Vivien Leigh e Sophie Marceau. 
Difficile quindi pensare che qualcosa di nuovo potesse essere messo in scena ma Joe Wright offre un inaspettato punto di vista: la vita e il teatro sono la stessa cosa e l'una non potrebbe esistere senza l'altro.
È quindi il palcoscenico di un teatro ottocentesco con le sue quinte, i sipari, i meandri che si snodano sotto la superficie ad essere il filo conduttore della storia.
I personaggi si muovono in continue dissolvenze tra interni ed esterni, tra neve e locomotive, campi da coltivare e matrimoni da salvare.
Si ha la sensazione di assistere ad un progressivo schiudersi di matrioske che rotolano verso la tragedia, al ritmo della bellissima colonna sonora del premio Oscar Dario Marianelli. 
Anna ha la diafana bellezza di Keira Knightley, già vista nelle precedenti opere di Wright «Espiazione» e «Orgoglio e Pregiudizio»: qui si muove come trasognata nella trappola dell'amore in cui è incautamente caduta e recita con molta misura, senza indulgere in troppe crisi isteriche. Anna non si giustifica mai, non si nasconde, è consapevole di avere infranto le regole del suo ambiente e che per quel peccato non esiste perdono. In alcune inquadrature il prognatismo della mandibola è un po' troppo evidente ma il personaggio non ne soffre...
Un Jude Law invecchiato e senza fascino impersona Karenin, più che mai uomo del suo tempo, noiosamente prevedibile.
Come coppia male assortita i due funzionano benissimo; lei è bella, insofferente alle convenzioni e annoiata da un matrimonio senza passione. Lui è un burocrate concentrato sulla carriera che considera la moglie un delizioso oggetto decorativo. È fatale che il primo azzimato militare che passa di là risvegli i sensi di Anna, gettandola in un abisso di perdizione senza rimedio. 
Sulla scelta di Aaron Taylor-Johnson per il personaggio del conte Vronskij nulla da eccepire, è adeguatamente vacuo, ma  sarei stata più d'accordo se non lo avessero proposto con un'acconciatura  degna di Shirley Temple, francamente poco adatta ad un uomo dai capelli e dall'incarnato scuri come i suoi. Scegliere un attore biondo a me sembra più facile.
Per il resto, riesce a farsi odiare meno dei suoi predecessori e c'è sempre una vena di tristezza nel suo sguardo, come se foschi presagi lo attraversassero. Non si ha veramente la sensazione che sia stanco di Anna, che voglia fuggirla come un amante troppo sazio. Rispetto all'antipaticissimo Sean Bean, visto nella versione diretta da Bernard Rose del 1997, che torturava con sadico piacere una disperata Sophie Marceu, questo conte è quasi tenero. 
Domhnall Gleeson è un ottimo Kostantin Levin, innamorato perso di Kitty e così dignitoso nel suo dolore di pretendente respinto da ispirare nel pubblico femminile molta simpatia.

I costumi sono splendidi e la fotografia coglie efficacemente le atmosfere teatrali e soffocanti della storia.
Nell'ultima scena, il bellissimo volto di Anna e i suoi occhi spalancati fissano il vuoto e l'oscurità. Dalle rotaie dove ha scelto l'unico castigo possibile per espiare il suo delitto, la donna sembra guardare i due figli che, immersi nella luce estiva, giocano sotto lo sguardo vigile di Karenin. 


1 commento:

  1. Sibylle Dangereuse scrive benerrimo; è da leggere indipendentemente dalla sussistenza di un oggetto di osservazione. Se vuole può scrivere a vanvera, in automatico e noi la leggiamo. Con gusto. Anche in questo caso. Anche se ci piacerebbe che i registi lasciassero dormire in pace l'anima di Anna. Per sempre appoggiata sulle parole di Lev il Magnifico, il Grande, l'Incommensurabile. L'unico uomo che l'ha capita fino in fondo.
    Luigi Alfieri.

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